Branding concettuale: cos’è e come funziona

Branding concettuale: cos’è e come funziona

Genio del marketing, Philip Kotler spiega come funziona il modello di branding concettuale e perché oggi è necessario seguirlo nell’epoca dei social network.

Come si crea un brand di successo al tempo dei social media? Una risposta la offre Philip Kotler, professore universitario e uno dei padri del marketi

Come si crea un brand di successo al tempo dei social media? Una risposta la offre Philip Kotler, professore universitario e uno dei padri del marketing moderno, secondo The Economist.

In un articolo su The Marketing Journal, Kotler spiega come si costruisce l’identità di un brand e quanto è importante puntare su quello che chiama “modello di branding concettuale” che si realizza in sei step: scopo, posizionamento, differenziazione, identità, fiducia, beneficio sociale.

Prima di spiegare le dinamiche del sistema, Kotler sgombra il campo da eventuali illusioni: «Molte aziende pensano che la costruzione di un brand si limiti alla creazione di un logo e di un nome. Ma quello è solo l’inizio che serve a definire l’identità», spiega. Per trasmettere meglio il concetto fa un esempio e spinge il lettore a immaginarsi in un supermercato, tra migliaia di birre con marchi diversi, migliaia di “identità”, come fare a distinguersi?

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La chiave per Kotler è quella di definire, innanzitutto, lo scopo, “il purpose” che il brand vuole raggiungere presso i consumatori. Questo è il primo step del modello di branding concettuale.

In altre parole la domanda a cui bisogna rispondere è “che tipo di attività intende fare il brand per offrire benefici al consumatore”: «Tutte le auto promettono di condurvi da un punto A a un punto B. E in questo non c’è nessun fattore che differenzia due competitor. Tuttavia, se Volvo promette di portarvi da un punto A a un punto B in massima sicurezza, l’auto ha già trovato una sua “categoria” all’interno della macrocategoria».

Kotler spiega poi come la ricerca di una propria identità di brand sia un percorso in continua evoluzione e come i fattori di differenziazione mutino nel tempo: «Cosa succede poi se un altro competitor decide di posizionarsi sul mercato come macchina sicura? Allora Volvo, come nell’esempio, dovrà muoversi su un altro fattore di differenziazione, magari sul prezzo, oppure sull’offerta di un corso gratuito sulla sicurezza stradale», continua.

Da queste premesse, Kotler spiega che trovare lo “scopo” è il primo lavoro nella creazione di un brand, al quale seguono le fasi di “posizionamento” e “differenziazione”. Ma basta questo?

Non è sufficiente, esistono altre categorie da vagliare, come quella del “brand’s higher purpose”, in altre parole, del compito nobile che il brand vuole raggiungere attraverso la sua comunicazione. Per spiegare meglio il concetto ricorre a un altro esempio, che vede protagonista Coca Cola. “Lo scopo” del brand è quello di offrire sollievo a chi ha sete con una bevanda che ha un buon gusto. E poi c’è un fine più nobile, quello cioè di trasmettere felicità a chi beve la bevanda.

Raggiungere quello che è il fine più alto significa passare per altri step intermedi, e cioè la definizione dell’identità e poi la fiducia. Una volta che il brand ha capito il suo scopo e il suo posizionamento, sa chi è. Ma per conquistare la fiducia del consumatore dovrà dimostrare di fare veramente ciò che va predicando.

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Infine, c’è un ultimo passaggio decisivo nel modello di branding concettuale, quello cioè di decidere qual è il beneficio reale che il brand vuole apportare alla società: «Malboro è stato uno dei marchi più popolari di sigarette poiché ha saputo trasmettere il gusto e l’alta soddisfazione legata al fumo. Ma oggi le sigarette sono anche sinonimi di “infarto” e di comportamenti socialmente sbagliati, come danneggiare le persone che sono intorno a te», spiega Kotler.

L’esperto di marketing sottolinea come oggi nell’epoca dei social, sia necessario per un brand mostrare che un prodotto/servizio ha un beneficio sociale. Lo sa bene l’industria alimentare che ha dovuto riflettere sugli ingredienti, l’uso di un eccesso di grassi e zuccheri, per esempio, e spostarsi verso comportamenti socialmente più corretti.

Solo così potranno puntare a conquistare le emozioni dei consumatori, all’interno del cosiddetto marketing emozionale, che ha tanti maestri, da Richard Branson di Virgin, a Steve Jobs di Apple, passando per Howard Schultz di Starbucks: «Questo modello concettuale ha sempre più rilievo in un’età che vede la crescita del mondo digitale e dei social media. Viviamo in un’epoca in cui il consumatore riceve una miriade di informazioni, all’interno di reti sociali. Solo un brand autentico può sopravvivere in questo modello, dove i consumatori danno più credito a quello che dicono i loro collegamenti sui social, che alle comunicazioni dei brand. Solo così potrà scattare il meccanismo del passaparola».

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Branding concettuale: cos’è e come funziona

di Giancarlo Donadio Tempo di lettura: 3 min
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