Cominciamo con una storiella divertente. «Nel 2013 mi sono trasferita da Londra in Danimarca, a causa del nuovo impiego di mio marito alla Lego. Al
Cominciamo con una storiella divertente.
«Nel 2013 mi sono trasferita da Londra in Danimarca, a causa del nuovo impiego di mio marito alla Lego. Al primo giorno del suo nuovo lavoro sono rimasta scioccata. Lavoro da casa come giornalista freelance. Nemmeno il tempo di rispondere a qualche mail e buttare giù un po’ di pane di segale, che vedo la mia metà tornare a casa. Ho pensato che fosse un’eccezione dovuta al primo giorno. Ma la stessa cosa è successa il giorno dopo. E quello dopo ancora. E poi è arrivato il venerdì e lui era a casa alle 14:30. All’inizio sono andata in panico: era malato? Era stato licenziato? La Lego si era sciolta? (questo è un po’ un mio mantra: perché ragionare razionalmente quando puoi aggiungere una punta di drammaticità?). “Ma no”, mi disse, “le persone qui vanno sempre via prima, il venerdì”».
Anche se raccontata da una londinese, la storia di Helen Russell può suonare familiare a più di un italiano. Secondo le ultime stime OCSE, nel 2015 un danese ha lavorato per 1457 ore in media, un italiano quasi 300 in più: 1725. Il “Cronometro lavorativo”, realizzato da Italiani.Coop elaborando dati Istat ed Eurostat, confermano, in parte, il dato: un italiano lavora mediamente 37 ore a settimana, un danese 33,5. Perché in parte? Perché ci sono almeno due grandi “ma” su questi dati. Il primo è che la vita lavorativa media (gli anni in cui si lavora) è decisamente più lunga in Danimarca: 39,2 anni. In Italia si ferma a 30,7. Due: pare che i dati riguardino anche il lavoro part-time, riducendo sensibilmente il dato settimanale.
Di questo passo, però, entrerebbero in scena anche altri parametri, come le paghe orarie, i benefit, lo stato sociale e così via. Confrontare due modelli così diversi, assegnando la “palma del vincitore” al più virtuoso, non è mai semplice e spesso non è una buona idea (e soprattutto non lo è per un semplice articolo sul web).
Alcuni analisti, però, sono pronti a considerare il modello danese come il migliore per il work-life balance, il bilanciamento vita privata-lavoro, di cui tutti noi siamo alla ricerca più o meno consapevole.
Ecco 3 ragioni che fanno gridare al “miracolo”.
1. Fiducia
Helen Russell racconta il modello danese attraverso le voci dei protagonisti. Una sua amica, lavoratrice senza figli, spiega:
«Le aziende si fidano di noi, sanno che faremo un buon lavoro, porteremo a termine il nostro compito. Dopodiché, siamo liberi di andare via».
L’equazione più tempo trascorso al lavoro, maggiore produttività non funziona. Lo abbiamo visto: quando si superano le 50 ore lavorative settimanali la produttività crolla. Lavorare 70 ore la settimana equivale a lavorarne 55. E quando gli impiegati vedono rispettato il proprio work/life balance, la produttività aumenta del 21%.
Restiamo però troppo spesso legati a degli imprecisati valori morali, che ci costringono a massacrarci di lavoro o a trattenere i nostri dipendenti il più a lungo possibile in azienda. Perché? Probabilmente per mancanza di fiducia: crediamo che gli altri siano fondamentalmente dei pigri.
2. Famiglia
Una ragazza americana, amica a sua volta di Helen, racconta invece che ogni giorno una sua collega danese, aveva in programma in agenda un appuntamento alle 15:45. “HENTE BØRN”, leggeva. Non essendo molto pratica della lingua, ha fatto una ricerca su Google translate: “Andare a prendere i bambini”.
Secondo alcuni analisti, la famiglia è importante almeno quanto il lavoro, in Danimarca. Non è una vergogna mettere le priorità familiari davanti a qualche impegno lavorativo.
C’è persino chi, come Martin Bjergegaard (esperto in startup e work/life balance, anche lui danese), consiglia di far finta di avere una famiglia, per avere lo stesso grado di “libertà” degli altri. (Ma forse questo minerebbe un po’ il primo punto: la fiducia).
3. Gioco e riposo
In ognuno di noi c’è un bambino. Un bambino con le sue esigenze e desideri. Che, ogni tanto, vanno assecondate, se non vogliamo trasformarci in macchine da lavoro o in cervelloni ossessionati dal senso del dovere.
Dare sfogo al nostro bambino interiore ci dà la possibilità di ridurre i livelli di stress e la pressione che facciamo fatica a sfogare altrove. È a questo che serve anche lo sport, per esempio.
Gioco e riposo sono strettamente collegati: difficilmente ci sentiremo davvero riposati se non ci dedichiamo a qualche attività ludica, e appena finiamo di lavorare attacchiamo con gli impegni che abbiamo in casa. Ovviamente non stiamo dicendo che queste cose vanno trascurate. Secondo le testimonianze che abbiamo visto oggi, però, gli spazi per se stessi vengono sempre rispettati in Danimarca.
Ed è proprio a questo che servono le 5 settimane di vacanze pagate: per dedicare un po’ di tempo e spazio a se stessi.
Work/Life Balance? Lo “impone” anche il governo
Per concludere, una curiosità dal sito ufficiale del Paese nordeuropeo. Qui troviamo infatti una pagina dedicata proprio al Work/Life Balance, considerato come un vero e proprio stile di vita: “The Danish way”, la via danese.
«Molti Paesi stanno oggi tentando di emulare la qualità della vita danese e, più in generale, l’elevato tenore di vita», leggiamo.
Tra i “fatti” che fanno propendere per il modello danese, ce ne sono almeno 4 molto interessanti:
- I danesi possono godere di un elevato livello di flessibilità al lavoro. Spesso possono scegliere quando cominciare la propria giornata lavorativa e di lavorare da casa.
- Non ci sono turni che si accavallano. La pausa per il pranzo è quasi sempre fissa e vale per tutti i lavoratori: in questo modo, è possibile fare un po’ di vita sociale tra colleghi, allontanandosi dalla scrivania e dal pc.
- Ci sono almeno 5 settimane di vacanze retribuite, indipendentemente dal livello salariale.
- Il welfare danese mira a un elevato tenore di vita e a un buon work/life balance.
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