Pandora: come trasformare un piccolo negozio di gioielli in un successo planetario

Pandora: come trasformare un piccolo negozio di gioielli in un successo planetario

La storia di Pandora, un piccolo negozio di gioielli di Copenaghen che ha saputo nel tempo crescere fino a diventare un’azienda con 8.100 punti vendita nel mondo. Raccontiamo le origini e cosa possiamo imparare dal successo del brand.

Pandora produce gioielli e vale “oro”. Nel 2016 l’azienda danese ha ottenuto revenue per 1,39 miliardi di dollari, incrementando del 19% i già buoni r

Pandora produce gioielli e vale “oro”. Nel 2016 l’azienda danese ha ottenuto revenue per 1,39 miliardi di dollari, incrementando del 19% i già buoni risultati dell’anno precedente. Ma come ha fatto un piccolo negozio a conduzione familiare ad affermarsi su scala globale? MGMT ripercorre la storia di Pandora e offre sei lezioni di business che possiamo imparare dal suo successo.

Pandora: gli inizi in un sobborgo di Copenaghen

C’era una volta un orafo e sua moglie… Inizia così una delle storie di successo più incredibili degli ultimi decenni. La “favola” ha come protagonista Per Enevoldsen e la sua compagna di vita, Winnie. I due decidono di mettere su un negozio di gioielli. Per assicurarsi di offrire sempre cose mai viste prima, la coppia viaggia spesso in Thailandia e inizia ad importare dal Paese asiatico. Gli affari vanno bene, tanto che i due decidono di aprire lì una fabbrica e produrre direttamente sul posto. Per e Winnie sono due persone illuminate. Sanno che per evolversi hanno bisogno di assumere talenti. Il primo a entrare in squadra è un designer, si chiama Lone Frandsen, ed è lui a guidare le nuove uscite del brand. Siamo nel 1987. Per circa un decennio, Pandora riesce a mantenersi sul mercato con discreto successo, ma non è ancora il brand che conosciamo oggi. Decisiva per la crescita del progetto è l’assunzione di un altro genio del design: si chiama Lisbeth Enø Larsen. L’allora giovanissima professionista lavora a stretto contatto con Frandesn per realizzare un nuovo concept: un particolarissimo bracciale dotato di ciondoli, i cosiddetti “charms”, sostituibili e personalizzabili per ogni occasione. Un sistema innovativo permette ai ciondoli di essere inseriti e rimpiazzati in modo rapido. La coppia brevetta l’idea. I braccialetti Pandora appaiono sul mercato nel 2000. Ed è subito mania.

Pandora e il successo in tutto il mondo

Quello che era un piccolo negozio danese, diventa un’azienda che esporta in tutto il mondo. Il primo Paese da conquistare sono gli Stati Uniti, dove il brand fa il suo esordio nel 2003. Solo un anno dopo Pandora è già disponibile in oltre 700 negozi negli Usa. E poi c’è l’espansione a macchia d’olio sugli altri mercati: Canada, Australia e poi l’UK. L’America, tuttavia, resta il Paese nel quale l’azienda conosce l’espansione più veloce. Su questo grafico di Statista si può leggere la parabola ascendente del brand negli anni che va dal 2007 al 2016. Il successo del brand ingolosisce gli investitori. I primi a investire sono quelli di Axcel, un fondo di equity danese, che acquista il 60% della società da Enevoldsen. Nel 2010 l’azienda va in Borsa. Il primo giorno vende 1.83 miliardi di azioni. Per il Wall Street Journal è la migliore IPO europea dell’anno. Oggi Enevoldsen è proprietario del 5% dell’azienda e non è più coinvolto nell’amministrazione del gruppo. Presidente e Ceo del brand oggi è Anders Colding Friis, manager con una lunga esperienza in multinazionali danesi nei settori più svariati, come conferma la sua bio.

Pandora: i segreti di un successo

Ma come ha fatto un piccolo negozio danese a diventare un business mondiale? Ci sono tante buone pratiche che questa storia può insegnarci. Ne abbiamo scelte alcune.

Conoscere i clienti

Chi conosce Pandora dall’interno sa quanti sono gli investimenti che l’azienda ha realizzato negli anni in indagini di mercato. Per comprendere le reali esigenze dei suoi consumatori, il gruppo ha investito molto nei social media e nella realizzazione di un club esclusivo (Il Pandora Club). L’obiettivo di questi canali è quello di ottenere feedback immediati dai consumatori. Per poi lavorare su quello che ha funzionato e soprattutto su quello che ha avuto risultati “non esaltanti”.

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Indurre un bisogno continuo

Le fan dei braccialetti Pandora lo sanno. I “charms” sono una droga, ne compri uno e poi torni al negozio per prendere un altro e un altro ancora. La strategia geniale del brand è proprio questa: il cliente compra il bracciale con alcuni ciondoli. E poi ritorna al negozio per acquistarne degli altri sulla base di un evento che gli è capitato, come la nascita di un figlio, una promozione sul lavoro, un fidanzamento: ci sono charms per festeggiare ogni occasione. Pandora così ha creato un bisogno “indotto” e spinto milioni di persone a fare code interminabili per regalare a se stesse o ad altri un nuovo ciondolo ed arricchire la “collezione”.

Ideare un modello di business scalabile

Il franchising ha aiutato Pandora a crescere in modo esponenziale. La scelta del modello ha permesso al brand di non avere costi fissi di strutture, ma partner. Questo ha permesso un abbattimento delle spese di gestione che sono a carico del franchisee e di poter reinvestire quei soldi nella realizzazione dei modelli. La compagnia delega distribuzione e vendita dei suoi prodotti, ma non la loro creazione, che resta fortemente centralizzata. In questo modo Pandora può controllare ogni aspetto della produzione che, malgrado i processi di industrializzazione, resta in gran parte legata alla tradizione manifatturiera. Come mostra bene questo video che circola in Rete.

Gestire l’azienda con la maestria di un artigiano

Per Endolvesen ha saputo trasmettere all’azienda tutti i valori appresi durante la sua lunga esperienza da artigiano. L’orafo ha saputo gestire il brand come un prodotto d’arte, con la capacità di avere un’attenzione spasmodica al dettaglio e di dare alla sua “creatura” il tempo giusto per crescere e rafforzarsi, prima di fare il grande salto e lanciarsi su altri mercati. Oltre a questo, ha saputo instillare nel dna dell’azienda altri valori, come la responsabilità sociale. Il gruppo è da sempre molto attento alla salute dei suoi dipendenti. Questo si nota soprattutto nelle fabbriche in Thailandia, lontane anni luce dalla stereotipo “della bassa paga e dello sfruttamento” che di solito si lega alle multinazionali che decidono di delocalizzare la loro produzione. Come quella che ha sede a Lamphun, che in molti definiscono molto “smart”, ovvero pensata in modo intelligente e funzionale: cinque edifici con mensa, nursery e infermeria e “spirit house” stanze destinate alla preghiera. E c’è perfino un dj che crea la musica per rendere il lavoro in azienda più sostenibile. «Offriamo contratti fissi con salari di circa 25 mila baht (666 euro circa) al mese contro i 10 mila (375 euro) del salario minimo di un operaio thailandese», spiegano i manager dell’azienda al Corriere della Sera.

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Pandora: come trasformare un piccolo negozio di gioielli in un successo planetario

di Redazione Tempo di lettura: 4 min
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