Non compriamo solo perché ci serve. Un oggetto, un servizio, rispondono a bisogni profondi, che vanno oltre la mera funzionalità. Bisogni che spesso n
Non compriamo solo perché ci serve. Un oggetto, un servizio, rispondono a bisogni profondi, che vanno oltre la mera funzionalità. Bisogni che spesso non trovano spazio a livello conscio (perché raramente ne siamo consapevoli). Ecco perché, sempre di più, i prodotti e i servizi più efficaci soddisfano sia bisogni funzionali che emozionali degli individui che li acquistano. E in più, il consumatore deve sentire che quel prodotto/servizio è stato ideato e realizzato “proprio per lui, solo per lui”.
Per entrare in quest’ottica, già da diversi anni è stata coniata l’espressione “empathic design”, una forma di design che pone al centro il consumatore come individuo e non come numero, come una variabile statistica. Scopriamo insieme che cos’è e vediamo alcuni esempi.
Che cos’è l’empathic design
Una definizione efficace, ma forse limitante, di empathic design è quella offerta da Wikipedia English:
«L’Empathic Design è un approccio al design centrato sull’utente, che presta attenzione alle sensazioni dell’utente nei confronti di un prodotto».
Per sviluppare meglio questa stringata definizione, ricorriamo al lavoro di Dorothy Leonard e Jeffrey F. Rayport, che già nel 1997 identificavano la nuova tendenza nel mondo del design. Secondo loro – entrambi insegnanti all’Harvard Business School – chi vuole praticare l’empathic design deve riuscire a comprendere i bisogni non espressi dai propri consumatori. Rispondendo quindi a due domande fondamentali.
Primo. “Come possono le aziende identificare dei bisogni che gli stessi consumatori potrebbero non identificare?”.
Secondo. “Come possono i designer sviluppare nuove strade per soddisfare quei bisogni, anche se nel corso di estese ricerche di marketing i consumatori non hanno mai menzionato tali desideri perché presumono che non possano essere esauditi?”.
Rispondere a tali domande richiede certamente tecniche di analisi raffinate, capacità di osservazione e un team esperto che sappia identificare e anticipare i bisogni di un’audience. Alla base di tutto, in ogni caso, c’è l’osservazione, spiegano Leonard e Rayport:
«Alla base [dell’empathic design] c’è l’osservazione: guardare i consumatori usare prodotti o servizi. Ma a differenza di quanto succede nei focus group, o nei laboratori che analizzano l’usabilità, e altre situazioni tipiche delle ricerche di mercato tradizionali, l’osservazione di cui parliamo è condotta nello stesso ambiente del consumatore: nel corso della sua routine normale, quotidiana. In questo contesto, i ricercatori possono avere accesso a una miniera di informazioni che non è accessibile attraverso altri metodi».
Le tecniche dell’empathic design includono dunque tutti gli strumenti utili alla raccolta di tali informazioni sull’utente, secondo l’approccio di osservazione appena descritto, la loro analisi e la successiva applicazione su prodotti e servizi.
Ritornando sul tema a 20 anni di distanza, Dorothy Leonard descrive 5 esempi concreti attraverso cui è stato applicato l’empathic design e cosa ci insegnano.
5 modalità di empathic design
La prima storia raccontata da Leonard è quella di Mike Pfotenhauer, fondatore di Osprey, azienda specializzata in prodotti da trekking. In questo caso, l’indagine sul campo è stata eseguita su un consumatore molto particolare: se stesso. Già perché Mike amava fare trekking, ma non era per nulla soddisfatto degli zaini allora in commercio. Li trovava poco confortevoli. Ecco perché, a 16 anni, decide di crearne uno in proprio, cucendolo a mano.
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Mike scopre che il problema che aveva individuato per sé era molto comune: i conoscenti cominciano a chiedere di ideare e realizzare equipaggiamento personalizzato per le loro escursioni. Poi la voce si diffonde e arrivano i primi clienti “veri”. Nasce così Osprey, brand specializzato in attrezzature da trekking user-friendly, che rispondono di volta in volta ai problemi che i suoi clienti gli espongono.
«La sua storia – commenta Leonard – esemplifica un tipo di empathic design, quella dell’utente-designer che riesce a combinare una profonda conoscenza dei prodotti utilizzati, con la capacità di prevedere nuove possibili soluzioni».
Il secondo esempio citato dalla professoressa è l’azienda IDEO, conosciuta sul mercato proprio per la sua capacità di realizzare un design “human-centered”, con l’umanità al centro. Un esempio? L’agenzia è riuscita a ridisegnare completamente il modo di lavorare del Kaiser Permanente, un ospedale di Oakland, in California. Per mesi un esperto ha fotografato ogni singola prestazione sanitaria, cercando di capire: chi fa cosa, come lo comunica, quali strumenti usa e così via. Un lavoro che Leonard descrive come “ricerca etnografica”: la supervisione e lo studio del comportamento degli utenti potenziali o reali.
Il terzo approccio descritto è l’adozione del punto di vista dell’utente, ma non in maniera astratta. In maniera fattuale. Una designer, voleva comprendere l’esperienza vissuta da un paziente e la sua famiglia in un pronto soccorso in ospedale. Per questo, ha deciso di fingere un infortunio. In questo modo, ha ridisegnato completamente il processo di Triage messo in atto dagli infermieri (si tratta di quell’analisi che porta a stabilire il livello di gravità di un paziente, assegnando quindi una priorità di cura). Si tratta in realtà di una pratica piuttosto diffusa: sono molti gli ospedali, almeno quelli dove si insegna, che assumono degli attori per simulare i pazienti:
«Anche se l’intenzione è quella di istruire i futuri dottori, piuttosto che di modificare i processi interni dell’ospedale, tali simulazioni possono offrire delle informazioni importanti, ricche di suggerimenti per migliorare», spiega Leonard.
Un altro esempio viene dall’architettura. A una designer dello studio HGA viene assegnata una consulenza particolare: deve aiutare a realizzare il pitch per il progetto di una sinagoga. Ma lei è cattolica. Decide quindi, per entrare maggiormente in empatia con il cliente, di studiare la religione ebraica: a partire dal più semplice Judaism for Dummies, passando poi a libri di una certa caratura intellettuale, è diventata esperta della materia. Al punto che i clienti, scherzando, le hanno detto che potrebbe insegnare in una scuola ebrea. Il punto è che questo studio l’ha aiutata a vincere la pitch competition: comprendendo a pieno la forte enfasi presente nell’ebraismo sulla custodia della terra, la designer ha infatti suggerito la creazione di un piccolo giardino esterno alla sinagoga, da utilizzare per determinate cerimonie.
Leonard parla di questo percorso come di una “immersione nella cultura del consumatore o cliente, in modo tale da poter guardare al progetto attraverso lenti differenti, intuendo i desideri non verbalizzati”.
Un’ultima strada possibile per dare un’impronta ‘empatica’ ai propri design è attraverso quello che la professoressa di Harvard chiama “artefatti cognitivi”, che hanno la capacità di chiarire le idee in fase di prototipazione:
«Come un disegno o un modello possono penetrare nell’immaginazione di un utente e far emergere desideri latenti, allo stesso modo possono riuscirci una metafora o un’analogia».
Per spiegare meglio l’assunto, Leonard cita l’esempio di SMMA, studio di architettura a cui è stato chiesto di creare uno spazio per maker, che incoraggi la collaborazione e il flusso delle idee, coniugando allo stesso tempo l’esigenza di aree di lavoro flessibili e la presenza in un ambiente rurale. Il direttore del reparto design di SMMA propone quindi al cliente un ‘locale per la cura’ del tabacco, come archetipo concettuale. Il tabacco, una volta raccolto, va conservato per un certo periodo all’interno di questa sorta di capannoni in legno:
«Tali strutture – spiega l’esperta – sono collegate alla terra, ma allo stesso modo sono costruite per un processo ben preciso: qui, per esempio, si direzionano e adattano differenti flussi d’aria, con la creazione di pareti porose e spazi interni adattabili. Invitando tutti a riflettere sulle funzionalità che avrebbero potuto mimare o differire da tale archetipo, la SMMA è riuscita a realizzare un design più innovativo, più empatico e user-friendly».
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