Resilienza: la capacità di riposare bene per lavorare meglio

Resilienza: la capacità di riposare bene per lavorare meglio

I consigli di Shawn Achor e Michelle Gielan per coltivare la resilienza e superare il workaholism.

Shawn Achor è un popolare scrittore e conferenziere. Ha scritto alcuni best seller come Il vantaggio della felicità e Prima della felicità, i suoi TED

Shawn Achor è un popolare scrittore e conferenziere. Ha scritto alcuni best seller come Il vantaggio della felicità e Prima della felicità, i suoi TED talk sono stati visti milioni di volte e ha fatto il ricercatore in 50 Paesi del mondo. Michelle Gielan è un’anchrowoman della CBS, collaboratrice di Arianna Huffington e sua volta autrice di un bestseller, Broadcasting Happiness.

Shawn e Michelle sono sposati e hanno un figlio di 2 anni. Viaggiano spesso per lavoro, soprattutto in aereo. Per diverso tempo hanno cercato di lavorare durante i voli, per ottimizzare i tempi. Con scarsi risultati.

“Perché volare ci toglie le energie? Stiamo seduti lì a fare niente. Perché non riusciamo a resistere di più, a essere più resilienti e determinati nelle nostre attività, in modo da completare tutti gli obiettivi che ci siamo dati?”, si chiedono. “Basandoci sulle nostre ricerche, abbiamo capito che il problema non è il nostro programma di lavoro febbrile o il viaggio in aereo in sé; era semmai la nostra interpretazione sbagliata del termine resilienza e le conseguenze del lavoro eccessivo”.

Che cos’è la resilienza

Secondo i due autori, abbiamo un concetto errato della resilienza. Molto spesso questo termine viene confuso con un approccio quasi “militaristico”: più siamo determinati, più lavoriamo duramente e prima raggiungeremo i risultati sperati, giusto? Non esattamente.

La mancanza di periodi di recupero è, in realtà, ciò che ostacola la nostra abilità a essere resilienti e ad avere successo”, spiegano. E fanno un esempio citando uno studio sull’insonnia.

La mancanza di sonno dovuta a eccessivi pensieri riguardo il lavoro o al controllo ossessivo dello smartphone, costa alle aziende americane circa 63.2 miliardi di dollari ogni anno, per mancata produttività.

Avere dei periodi di recupero – tra cui un sonno riposante – è quindi fondamentale per il nostro benessere psicofisico, ma anche per le nostre performance lavorative. Un workaholic, una persona affetta cioè da una vera e propria dipendenza da lavoro, può anche smettere di lavorare alle 6 del pomeriggio. Ciò non vuol dire che ha davvero cominciato a riposarsi.

A volte “fermiamo” il lavoro, ma passiamo il resto del tempo a cercare nuove soluzioni per i nostri problemi al lavoro, a parlare di lavoro a cena e ad addormentarci pensando a quanto dovremo lavorare domani”, spiegano.

Workhaolics: una dipendenza patologica

Contrariamente a quanto si pensi, lavorare più a lungo non vuol dire farlo meglio. Abbiamo questa idea romantica del lavoratore indefesso che, pieno di passione per quanto sta costruendo, non riesce a smettere. Mai, neanche quando dorme, il suo cervello è in funzione, a caccia di nuove idee e soluzioni.

In realtà, il cosiddetto workaholism è ormai considerato alla stregua di una vera e propria dipendenza.

Il termine è nato dalla penna di Wayne Oates, psicologo americano, che nel 1968 ha per primo introdotto il neologismo. Workaholism nasce dalla fusione tra work (lavoro) e alcoholism (alcolismo), a indicare una vera e propria dipendenza.

Il workaholic non solo non riesce a smettere di lavorare. È completamente ossessionato dalle proprie mansioni e non riesce a pensare ad altro.

È un disordine compulsivo che nasce da problemi interni all’individuo, che diventano sintomatici al lavoro: il workaholism è un problema di salute mentale e non una virtù. Un bisogno irrefrenabile che è divenuto ancora più invasivo nella vita di questi soggetti per via delle innovazioni tecnologiche. I workaholic si sentono spesso mariti, padri o figli inadeguati o non all’altezza delle aspettative altrui”.

Questa è la definizione di Cesare Guerreschi, psicologo e psicoterapeuta.

Spesso, chi è affetto da questo disturbo si sente in colpa quando non lavora ed è costantemente afflitto da pensieri d’ansia e depressione. Il workaholism è associato a problemi di insonnia, pressione elevata e aumento di peso. Un disturbo che, inevitabilmente, si traduce in una vita familiare complicata. I coniugi dei workaholic sono spesso insoddisfatti del proprio matrimonio e i figli risultano addirittura più inclini alla depressione dei figli degli alcolisti (+72%, secondo una ricerca).

Non esistono stime precise sulla percentuale di persone affette da questa ossessione. Negli Stati Uniti, la cifra sarebbe intorno al 10%, una diffusione paragonabile a quelle di alcol e nicotina. Una recente ricerca, però, ha dimostrato che il 60% degli Americani non riesce a star lontano dalle email anche fuori dall’ufficio. Tra gli under 30 la situazione è ancora peggiore: quasi il 70% ritiene che sia normale restare in contatto con colleghi e capi anche dopo l’orario di lavoro. In Italia, secondo Guerreschi, la percentuale dei workaholic è paragonabile a quella delle persone affette da gioco d’azzardo patologico: 1-3% della popolazione.

7 sintomi di workaholism

I ricercatori dell’Università di Bergen, in Norvegia, hanno elencato i 7 sintomi specifici che caratterizzano il disturbo. Eccoli:

  1. Pensi a come trovare più tempo per lavorare
  2. Passi più tempo a lavorare di quanto stabilito
  3. Lavori per mettere a tacere senso di colpa, ansia e depressione
  4. Gli altri ti dicono di lavorare di meno, ma tu non li ascolti
  5. Ti senti a disagio se qualcuno ti proibisce di lavorare
  6. Metti da parte gli hobby, il tempo libero, l’ozio e l’esercizio a causa del lavoro
  7. Lavori talmente tanto che ciò influisce sulla tua salute fisica

Secondo i ricercatori, chi corrisponde ad almeno 4 o 5 di tali criteri, può essere definito come un workaholic.

Sviluppare la buona resilienza

Torniamo ad Achor e Gielan. I due autori credono che la nostra idea sbagliata di resilienza nasca dall’insegnamento ricevuto in famiglia. E fanno un esempio classico. Dei genitori che cercano di allenare il proprio figlio alla resilienza, si complimentano con lui quando resta alzato fino alle 3 del mattino per completare un progetto di scienze.

Che distorsione della resilienza! Solo un ragazzo ben riposato è un ragazzo resiliente. Quando uno studente esausto va a scuola, rischia di far male a qualcuno perché si mette alla guida anche se è stanco; non avrà le risorse cognitive per far bene un test di inglese; avrà meno autocontrollo con i propri amici; e a casa sarà di malumore con i genitori. Il troppo lavoro e l’esaurimento sono l’opposto della resilienza”.

La vera essenza della resilienza, in realtà, sta nel lavorare duramente, fermarsi, recuperare e poi ricominciare a lavorare con determinazione e costanza: “L’omeostasi è un concetto biologico fondamentale che descrive la capacità del cervello di ripristinare continuamente e mantenere il proprio benessere”.

La prima cosa da capire, quindi, è che riposare e recuperare non sono la stessa cosa. Si può anche stare distesi su un letto per 8 ore, ma impossibilitati a prendere sonno.

Per sviluppare la resilienza, abbiamo bisogno di periodi di recupero interni ed esterni.

I primi si riferiscono a quei brevi momenti di relax a cui ricorriamo durante l’orario di lavoro: piccole pause, sia programmate che non. Per funzionare, in quei pochi minuti dobbiamo spostare la nostra attenzione o anche cambiare il compito che stiamo eseguendo. Dobbiamo ricorrere a una pausa ogni volta che ne abbiamo bisogno, quando cioè le nostre risorse psicofisiche sono esaurite. Una pausa cognitiva per ricaricare le batterie dovrebbe essere presa almeno ogni 90 minuti. È anche importante staccarsi dalla scrivania in pausa pranzo, uscire fuori e incontrare qualche amico (senza parlare di lavoro).

I periodi di recupero esterni sono invece le azioni compiute al di fuori dell’orario di lavoro: quando stacchiamo la sera, nei weekend, durante le vacanze, etc. A volte anche concentrarci su altro è una cattiva abitudine: leggere le notizie politiche per esempio. Oppure pensare costantemente ai problemi in casa. Se facciamo così, il nostro cervello non riceve alcun sollievo.

In alcuni casi gravi, un workaholic potrebbe però aver bisogno di un vero e proprio approccio terapeutico alla propria dipendenza.

COMMENTS

WORDPRESS: 0
DISQUS: 0

Resilienza: la capacità di riposare bene per lavorare meglio

di Gennaro Sannino Tempo di lettura: 5 min
0